🇮🇹 Kafkiani o cristiani?
(Video e testo in 🇮🇹 italiano)
Commento al Vangelo della Domenica 10 Marzo 2024 (IV TQ-B)
Gv 3,14-21 (Dio ha tanto amato il mondo)
I.
Il termine “kafkiano” è un sinonimo di assurdo, paradossale, e prende il nome dallo scrittore praghese Franz Kafka (1883-1924). Questo autore, di cui ricorre quest’anno il centenario della morte, ha scritto romanzi importanti come “La metamorfosi” che racconta di un giovane che si sveglia al mattino e si ritrova trasformato (metamorfosi) in un gigantesco insetto (“enorme insetto immondo”), e il romanzo altrettanto angosciante “Il processo”, dove il protagonista, un funzionario di banca, viene improvvisamente e inspiegabilmente arrestato e condannato senza sapere di cosa è accusato. Un biografo di Kafka (Frederick R. Karl) dice che il nostro autore descrive nei suoi romanzi la situazione che si prova “quando entri in un mondo surreale in cui tutti i tuoi schemi di controllo, tutti i tuoi piani, l'intero modo in cui hai configurato il tuo comportamento, inizia a cadere a pezzi, quando ti trovi contro una forza che non si presta al modo in cui percepisci il mondo. E qualsiasi cosa tu faccia per contrastarla, ovviamente non hai nessuna possibilità”. La condanna è un tema cruciale nei romanzi di Kafka i cui epiloghi sono terribili. L’uomo sembra essere condannato a una vita assurda, opprimente, dove la relazione con gli altri si interrompe e si rimane soli con se stessi di fronte all’ignoto. In uno dei suoi ultimi scritti Kafka disse: ““Esiste un punto di arrivo, ma nessuna via”. Siamo d’accordo con lui per quanto riguarda la premessa “Esiste un punto di arrivo” ma non nella conclusione quando dice “non esiste nessuna via”. Il fatto che lui non abbia trovato la via non significa che non esiste. La via per arrivare a questo punto di arrivo non la puoi trovare su qualche cartina geografica, o su una mappa del tesoro e nemmeno su google map, perché questa via non è un sentiero, ma è una persona che ha detto “Io sono la Via”.
II.
È quanto ci conferma il vangelo di questa domenica del dialogo di Gesù con Nicodemo, il dottore della Legge, fariseo e membro del Sinedrio che era affascinato dal Maestro ed era andato a incontralo di notte, per non farsi vedere dalla gente. Gesù gli dice delle parole tra le più belle che siano mai state pronunciate sulla faccia della terra: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”. Gesù non sta parlando di un futuro a venire, o della vita dopo la morte, ma del presente: chiunque crede in Gesù ha già fin d’ora una vita che sa di eterno. Che differenza enorme tra l’uomo kafkiano che sa di terra, e l’uomo cristiano (cioè di Cristo) che sa di eterno: il primo è un uomo disperato, solo, in preda all’angoscia e assurdità della vita che ha davanti a sé un epilogo tragico. L’uomo di Cristo invece, è un uomo immensamente amato da Dio al punto da ricevere in dono suo Figlio, e quindi un uomo immerso nell’amore, il cui epilogo è la vita eterna. Cosa poteva fare di più Dio per noi, di quello che ha fatto donandoci suo Figlio e la vita eterna?
Per Kafka e per gli autori del teatro dell’assurdo che a lui si sono ispirati (Samuel Beckett, Eugène Ionesco…), l’uomo è condannato all’assurdità della vita. Con Cristo invece non c’è nessuna condanna: “Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato”. Per il cristiano il paradigma della vita non è l’assurdità e la condanna , ma la salvezza e la vita eterna.
III.
Perché allora tante volte noi viviamo più come kafkiani che come cristiani?
San Luigi Gonzaga diceva “Quod aeternum non est, nihil est” ("Ciò che non è eterno non è nulla”). Per noi cristiani tutte le filosofie nichiliste, la letteratura dell’assurdo o le mode agnostiche del nostro tempo sono niente. Queste però esercitano un’attrazione fatale e ci fagocitano a tal punto da farci dubitare a volte delle nostre certezze. Non dobbiamo negare il confronto e il dialogo con queste teorie e con tutte le altre voci contemporanee nella ricerca della verità, nella consapevolezza però che noi abbiamo già incontrato la fonte della verità, che coincide non con una ideologia o corrente filosofica o una moda del tempo, ma coincide ancora una volta con una persona la quale ha detto “Io sono la Verità”.
La filosofa e mistica Simone Weil, anch’essa di origini ebraiche come Kafka, ha percorso un cammino diverso da lui nella ricerca del senso della vita e della verità. Ella scrisse: “Mi pareva infatti – e lo credo ancor oggi – che non si resista mai abbastanza a Dio, se lo si fa per puro scrupolo di verità. Cristo vuole che gli si preferisca la verità, perché prima di essere Cristo egli è verità. Se ci si allontana da lui per andare verso la verità, non si farà molta strada senza cadere fra le sue braccia. È stato dopo questa esperienza che ho sentito che Platone è un mistico, che tutta l’Iliade è impregnata di luce cristiana e che Dioniso e Osiride sono in certo modo Cristo stesso; e il mio amore ne è stato raddoppiato.” (Dal libro “Attesa di Dio”). È quanto conclude Gesù nel Vangelo di oggi: “chi fa la verità viene verso la luce”.
IV.
In conclusione.
Come già vi dissi, a volte qualcuno contesta le mie omelie dicendomi che continuo a “divagare” su altre cose come l’arte, la musica, la letteratura mentre dovrei parlare solo di Dio. Le parole di Simone Weil che abbiamo appena ascoltato sono una risposta a questa obiezione: Dio è presente in tutto e in tutti (Platone, Dioniso, Iliade, etc.), ed è presente anche in Kakfa e in tanti autori nichilisti e agnostici, dove la Sua presenza prende la forma dell’assenza. Un’assenza gritante che ci fa sentire Dio presente anche laddove è ignorato o negato, perché come dice la Weil: “non si farà molta strada senza cadere fra le sue braccia”.
Cari amici e amiche, oggi che è la domenica “In laetare”, della gioia, siamo davvero lieti perché la nostra fede ci anticipa fin d’ora l’eterno e perché quando ci risveglieremo dal sonno della morte non ci ritroveremo trasformati in un enorme insetto di kafkiana memoria, ma ci risveglieremo nelle braccia di Dio.
Immagine di fondo: Scena dal teatro “La metamorfosi” di Kafka, Teatro Ca’ Foscari
Musica di fondo: Branka Parlic plays Philips Glass “Metamorphosis 1”
🇵🇹 Kafkianos ou cristãos?
(Vídeo e texto em 🇵🇹 português)
Comentário ao Evangelho do domingo 10 de março de 2024 (IV TQ-B)
Jo 3,14-21 (Deus amou tanto o mundo)
I.
O termo "kafkiano" é sinónimo de absurdo, paradoxal, e tem o nome do escritor praguense Franz Kafka (1883-1924). Este autor, cujo centenário da morte se assinala este ano, escreveu romances tão importantes como "A Metamorfose", que conta a história de um jovem que acorda de manhã e se vê transformado (metamorfose) num inseto gigantesco ("enorme inseto nojento”), e o igualmente angustiante romance "O Processo", em que o protagonista, um funcionário de um banco, é súbita e inexplicavelmente preso e condenado sem saber do que é acusado. Um biógrafo de Kafka (Frederick R. Karl) afirma que o nosso autor descreve nos seus romances a situação que se vive "quando se entra num mundo surrealista em que todos os teus esquemas de controlo, todos os teus planos, toda a forma como configuraste o teu comportamento, começam a desmoronar-se, quando se enfrenta uma força que não se presta à forma como percebes o mundo. E o que quer que façamos para a contrariar, é óbvio que não temos qualquer hipótese de sucesso”. A condenação é um tema crucial nos romances de Kafka, cujos epílogos são terríveis. O homem parece estar condenado a uma vida absurda e opressiva, em que as relações com os outros são interrompidas e a pessoa é deixada sozinha consigo própria face ao desconhecido. Num dos seus últimos escritos, Kafka disse: "Há um ponto de chegada, mas não há caminho". Concordamos com ele na premissa "há um ponto de chegada", mas não na conclusão, quando diz "não há caminho". O facto de ele não ter encontrado o caminho não significa que não exista. O caminho para este ponto de chegada não pode ser encontrado num mapa qualquer, ou num mapa do tesouro, nem no google map, porque este caminho não é uma estrada de terra, mas é uma pessoa que disse "Eu sou o Caminho".
II.
É isto que o evangelho deste domingo nos confirma no diálogo de Jesus com Nicodemos, doutor da Lei, fariseu e membro do Sinédrio, que estava fascinado pelo Mestre e tinha ido ao seu encontro de noite, para não ser visto pelo povo. Jesus diz-lhe algumas das mais belas palavras jamais pronunciadas sobre a face da terra: "Deus amou tanto o mundo que deu o seu Filho único para que todo aquele que nele crer não se perca, mas tenha a vida eterna". Jesus não está a falar de um futuro que há-de vir, ou da vida depois da morte, mas do presente: quem acredita em Jesus já tem uma vida com sabor a eternidade. Que enorme diferença entre o homem kafkiano que saboreia a terra e o homem cristão (isto é, o homem de Cristo) que saboreia a eternidade: o primeiro é um homem desesperado, sozinho, dominado pela angústia e pelo absurdo de uma vida que tem um epílogo trágico à sua frente. O homem de Cristo, pelo contrário, é um homem imensamente amado por Deus a ponto de receber o seu Filho como dom, e portanto um homem mergulhado no amor, cujo epílogo é a vida eterna. Que mais poderia Deus ter feito por nós do que nos dar o seu Filho e a vida eterna?
Para Kafka e para os autores do teatro do absurdo que nele se inspiraram (Samuel Beckett, Eugène Ionesco...), o homem está condenado ao absurdo da vida. Com Cristo, porém, não há condenação: "Porque Deus não enviou o seu Filho ao mundo para condenar o mundo, mas para que o mundo fosse salvo por Ele. Quem acredita nEle não é condenado". Para o cristão, o paradigma da vida não é o absurdo e a condenação, mas a salvação e a vida eterna.
III.
Por que razão, então, vivemos tantas vezes mais como Kafkianos do que como cristãos?
São Luís Gonzaga dizia: "Quod aeternum non est, nihil est" ("O que não é eterno não é nada"). Para nós, cristãos, todas as filosofias niilistas, a literatura do absurdo ou as modas agnósticas do nosso tempo não são nada. No entanto, elas exercem uma atração fatal e envolvem-nos a tal ponto que, por vezes, duvidamos das nossas certezas. Não devemos negar o confronto e o diálogo com estas teorias e todas as outras vozes contemporâneas na procura da verdade, sabendo, no entanto, que já encontrámos a fonte da verdade, que não coincide com uma ideologia ou uma corrente filosófica ou uma moda da época, mas coincide mais uma vez com uma pessoa que disse "Eu sou a Verdade".
A filósofa e mística Simone Weil, também de origem judaica como Kafka, percorreu um caminho diferente do dele na sua busca do sentido da vida e da verdade. Escreveu: "Parecia-me - e ainda hoje acredito nisso - que nunca se pode resistir suficientemente a Deus, se o fizermos por puro escrúpulo pela verdade. Cristo quer que a verdade seja preferida a ele, porque antes de ser Cristo, ele é a verdade. Se nos afastarmos dele para irmos ao encontro da verdade, não iremos longe sem cairmos nos seus braços. Foi depois desta experiência que senti que Platão é um místico, que toda a Ilíada está impregnada de luz cristã, e que Dionísio e Osíris são, de certo modo, o próprio Cristo; e o meu amor redobrou." (Do livro “À espera de Deus”). É o que Jesus conclui no Evangelho de hoje: "quem pratica a verdade caminha para a luz".
IV.
Para concluir.
Como já vos disse, por vezes alguém contesta as minhas homilias dizendo que estou sempre a "divagar" sobre outras coisas como a arte, a música, a literatura, quando devia falar apenas de Deus. As palavras de Simone Weil que acabámos de ouvir são uma resposta a esta objeção: Deus está presente em tudo e em todos (Platão, Dionísio, Ilíada, etc.), e está também presente em Kakfa e em muitos autores niilistas e agnósticos, onde a sua presença assume a forma de ausência. Uma ausência gritante que nos faz sentir Deus presente mesmo onde Ele é ignorado ou negado, porque como diz Weil: "não se vai longe sem cair nos seus braços".
Caros amigos, sendo hoje o domingo "In laetare", da alegria, estamos verdadeiramente alegres porque a nossa fé já antecipa o eterno e porque quando acordarmos do sono da morte não nos encontraremos transformados num enorme inseto de memória kafkiana, mas acordaremos nos braços de Deus.
Imagem de fundo: Cena do teatro «A metamorfose» de Kafka, Teatro Ca' Foscari
Música de fundo: Branka Parlic toca Philips Glass «Metamorphosis 1»
🇬🇧 Kafkaesque or Christians? (Unrevised translation)
(Video and text in 🇬🇧 English)
Commentary on the Gospel for Sunday 10 March 2024 (IV TQ-B)
Jn 3:14-21 (God so loved the world)
I.
The term "Kafkaesque" is a synonym for absurd, paradoxical, and is named after the Prague writer Franz Kafka (1883-1924). This author, whose death centenary falls this year, wrote such important novels as 'The Metamorphosis', which tells of a young man who wakes up in the morning and finds himself transformed (metamorphosis) into a gigantic insect ('huge unclean insect'), and the equally distressing novel 'The Trial', where the protagonist, a bank official, is suddenly and inexplicably arrested and convicted without knowing what he is accused of. A biographer of Kafka (Frederick R. Karl) says that our author describes in his novels the situation one experiences 'when you enter a surreal world in which all your schemes of control, all your plans, the whole way you have configured your behaviour, begin to fall apart, when you are up against a force that does not lend itself to the way you perceive the world. And whatever you do to counter it, you obviously don't stand a chance'. Condemnation is a crucial theme in Kafka's novels whose epilogues are terrible. Man seems to be condemned to an absurd, oppressive life, where relations with others are interrupted and one is left alone with oneself in the face of the unknown. In one of his last writings, Kafka said: 'There is a point of arrival, but no way'. We agree with him in the premise 'There is a point of arrival' but not in the conclusion when he says 'there is no way'. The fact that he has not found the way does not mean it does not exist. The way to this end point cannot be found on some map, or on a treasure map, or even on a google map, because this way is not a path, but it is a person who said 'I am the Way'.
II.
This is what the gospel of this Sunday confirms to us of Jesus' dialogue with Nicodemus, the doctor of the Law, Pharisee and member of the Sanhedrin who was fascinated by the Master and had gone to meet him at night, so as not to be seen by the people. Jesus says to him some of the most beautiful words ever spoken on the face of the earth: 'God so loved the world that he gave his only Son that whoever believes in him should not be lost but have eternal life'. Jesus is not speaking of a future to come, or of life after death, but of the present: whoever believes in Jesus already has a life that tastes of eternity. What an enormous difference between the Kafkaesque man who tastes of earth, and the Christian man (i.e. Christ's man) who tastes of eternity: the former is a desperate man, alone, in the grip of the anguish and absurdity of life that has a tragic epilogue before it. The man of Christ, on the other hand, is a man immensely loved by God to the point of receiving his Son as a gift, and therefore a man immersed in love, whose epilogue is eternal life. What more could God have done for us than he did by giving us his Son and eternal life?
For Kafka and for the authors of the theatre of the absurd who were inspired by him (Samuel Beckett, Eugène Ionesco...), man is condemned to the absurdity of life. With Christ, however, there is no condemnation: "For God did not send his Son into the world to condemn the world, but that the world might be saved through him. Whoever believes in him is not condemned". For the Christian, the paradigm of life is not absurdity and condemnation, but salvation and eternal life.
III.
Why then do we so often live more like Kafkaesque than like Christians?
St Louis Gonzaga said 'Quod aeternum non est, nihil est' ('What is not eternal is nothing'). For us Christians, all the nihilistic philosophies, the literature of the absurd or the agnostic fashions of our time are nothing. These, however, exert a fatal attraction and engulf us to such an extent that we sometimes doubt our certainties. We must not deny confrontation and dialogue with these theories and all other contemporary voices in the search for truth, in the knowledge, however, that we have already encountered the source of truth, which coincides not with an ideology or philosophical current or a fashion of the time, but coincides once again with a person who said 'I am the Truth'.
The philosopher and mystic Simone Weil, also of Jewish origin like Kafka, travelled a different path from him in her search for the meaning of life and truth. She wrote: 'It seemed to me - and I still believe it today - that one can never resist God enough, if one does so out of pure scruples for truth. Christ wants truth to be preferred to him, because before he is Christ he is truth. If you turn away from him to go towards the truth, you will not go far without falling into his arms. It was after this experience that I felt that Plato is a mystic, that the whole of the Iliad is imbued with Christian light, and that Dionysus and Osiris are in a certain way Christ himself; and my love was redoubled." (From the book Waiting for God). This is what Jesus concludes in today's Gospel: "he who does the truth comes towards the light".
IV.
In conclusion.
As I have already told you, at times someone challenges my homilies saying that I keep "rambling" on about other things like art, music, literature when I should only be talking about God. Simone Weil's words that we have just heard are an answer to this objection: God is present in everything and everyone (Plato, Dionysus, Iliad, etc.), and He is also present in Kakfa and in many nihilist and agnostic authors, where His presence takes the form of absence. A gritty absence that makes us feel God present even where He is ignored or denied, because as Weil says: "one will not go far without falling into His arms".
Dear friends, today being the Sunday "In laetare", of joy, we are truly rejoicing because our faith already anticipates the eternal and because when we awaken from the sleep of death we will not find ourselves transformed into a huge insect of Kafkaesque memory, but we will awaken in the arms of God.
Background image: Scene from Kafka's 'The Metamorphosis' theatre, Ca' Foscari Theatre
Background music: Branka Parlic plays Philips Glass 'Metamorphosis 1'
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