LA PRESUNZIONE - Hybris (La disfatta di Marsia)
- P. Ezio Lorenzo Bono, CSF
- 19 ore fa
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Commento al Vangelo della
XXX Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (26/10/2025)
Vangelo: Lc 18,9-14
I.
Sulla via Ostiense, qui vicino a noi, c'è il bellissimo polo museale dei Musei Capitolini, detto “Centrale Montemartini”, allestito nella dismessa centrale elettrica. Tra i macchinari ormai fuori uso è stata allestita, in modo intelligente, l'esposizione di statue greche e romane, in un contrasto interessante tra antico e moderno. Tra le opere esposte ce n'è una che mi ha colpito in modo particolare: la statua in marmo rosso del giovane Marsia, con le mani legate sopra la testa e appeso nudo a un albero, in una struggente solitudine. Egli era un satiro della mitologia greca che, dopo aver trovato il flauto inventato da Atena ma da lei buttato via perché, soffiando nello strumento, le si deformava il viso, imparò a suonarlo con tanta abilità da voler sfidare in una gara musicale il Dio Apollo, abile suonatore di cetra. Il vincitore avrebbe poi disposto ciò che voleva riguardo al perdente. Le Muse, chiamate come giudici della gara, erano inizialmente affascinate dal suono del flauto di Marsia, che si profilava come il vincitore. Allora Apollo, vedendosi in svantaggio, cominciò ad accompagnare il suono della cetra con il canto melodioso della sua voce - cosa che ovviamente Marsia non poteva fare - e fu così che Apollo conquistò la vittoria. Quel canto di Apollo dev'essere stato veramente sublime, al punto che Dante, nella sua Divina Commedia, chiede ad Apollo (che raffigura lo Spirito Santo) di infondere a lui quel medesimo canto che lo fece vincere su Marsia. Come punizione per la sua arroganza, Apollo fece appendere Marsia a un albero e lo fece scorticare vivo.
Questo peccato di arroganza, o di presunzione nei confronti degli dèi (in greco hybris), ricorre spesso nella mitologia greca, come ci ricordano in modo impietoso molti miti: quello di Aracne, che dopo aver sfidato la dea Atena in una gara di tessitura, per punizione venne trasformata in un ragno; il mito di Icaro, che per la sua presunzione di raggiungere una prerogativa degli dèi, quella di avvicinarsi al sole, precipitò poi nel mare; la disfatta di Serse a Salamina, punito per il suo “tracotante ardire” di oltraggiare gli dèi, come ci racconta Eschilo nella sua tragedia I Persiani; il mito di Sisifo, condannato a spingere continuamente un enorme masso sulla cima di un monte per aver rivelato i segreti degli dèi; Ulisse, che volle oltrepassare i confini della conoscenza (le colonne d'Ercole) e naufragò; e molti altri miti. Questo peccato di presunzione (hybris) è un tema ricorrente non solo nella mitologia greca, ma anche nella tradizione biblica. L'arroganza degli uomini di fronte alle divinità non infastidiva solo gli dèi dell'Olimpo, ma lo stesso Dio Jahvè, il quale punì con la cacciata dal paradiso terrestre l'uomo che aveva appena creato e che voleva essere come Dio. La storia della salvezza ci racconta molti esempi del peccato di presunzione dell'uomo nei confronti di Dio - non solo da parte degli uomini, ma anche degli angeli, come nel caso di Lucifero, punito per la sua superbia.
II.
Questo ci aiuta a capire la parabola di oggi, che altrimenti risulterebbe incomprensibile: perché Dio non giustifica un uomo retto come il fariseo, che ha compiuto integralmente (anzi, ha fatto molto di più) ciò che era prescritto dalla legge divina, e giustifica invece quell'aguzzino pubblicano (un essere considerato spregevole, come gli usurai) che si arricchiva rubando agli altri, soprattutto ai più poveri? Sembra che Dio sia insofferente all'arroganza degli uomini, ai presuntuosi, a quelli che si credono migliori degli altri e si permettono di criticare e disprezzare tutti. Non siamo così anche noi? Non ci viene il prurito quando qualcuno si presenta a parlare di tutte le sue qualità e ignora o nasconde i suoi difetti? E quanti arroganti e presuntuosi anche nei nostri giorni! Il fariseo che si vanta di tutto quello che fa non sta pregando, non sta lodando Dio, ma sta lodando se stesso. E, come dice il proverbio: “Chi si loda, s'imbroda”, perché chi sbandiera a destra e a manca le sue qualità e le sue virtù ne perde tutto il merito. Chi mostra un complesso di superiorità tradisce in realtà un complesso di inferiorità: vedendo che nessuno si accorge di lui, deve strombazzare per farsi sentire e attirare l'attenzione. Il pubblicano, invece, è cosciente che lui non è niente e non ha nulla da mostrare, anzi si nasconde in fondo al tempio, consapevole della sua miseria. Lui non ha niente di cui vantarsi; al contrario, ha molto di cui vergognarsi, e per questo chiede umilmente pietà. Lui non si confronta con gli altri e non disprezza gli altri come il fariseo.
Con questa terza parabola sulla preghiera, san Luca ci insegna cosa è importante veramente quando preghiamo: la gratitudine, come quella del lebbroso guarito (di due domeniche fa), che torna indietro da solo a ringraziare; la costanza, come quella della vedova insistente (di domenica scorsa), che ottiene giustizia dal giudice disonesto; e l'umiltà, come quella del pubblicano (di oggi), che chiede pietà. La preghiera che Dio ama di più è quella che abbiamo sentito oggi: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Quando non sappiamo che cosa dire nella nostra preghiera, diciamo semplicemente: “Signore, pietà” (Kyrie Eleison), “Cristo, pietà” (Christe Eleison). Pregare non è auto-giustificarsi, ma chiedere perdono. Davanti a Dio dobbiamo essere semplici e veri. Non dobbiamo, come si fa spesso sui social, mostrare un'identità diversa dalla nostra per accaparrarsi dei like. Forse pensiamo che, se mostrassimo la nostra vera identità, non piaceremmo a nessuno e quindi vogliamo mostrare qualità che non abbiamo - o, per lo meno, non in quella misura. Davanti a Dio non dobbiamo fingere: Lui ci conosce meglio di noi stessi, conosce tutte le nostre virtù e i nostri difetti, e anche se siamo molto piccoli, ci ama lo stesso. Non mettiamoci in competizione con Dio, come il primo Adamo che voleva essere come Dio; mettiamoci invece in armonia con Lui, come il secondo Adamo, Gesù, che dice al Padre: “Sia fatta non la mia, ma la tua volontà”.
III.
Per concludere, vorrei dire una parola al giovane Marsia: di sicuro tu eri un abile artista nel suonare il flauto, ma se invece di sfidare il Dio Apollo avessi organizzato un'esibizione con lui, ne sarebbe uscito uno spettacolo splendido e la tua musica risuonerebbe ancora nell'universo. Invece, nella tua arroganza, hai avuto la presunzione di considerarti più bravo della divinità e sei finito appeso a quell'albero, dove da millenni te ne stai lì nudo e solo, con il tuo flauto che non suona più. E non c'è niente di più triste di uno strumento che ha smesso di suonare per sempre.
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