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SIAMO LO SFORZO CHE ABBIAMO FATTO (Ludwig Wittgenstein)


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Commento al Vangelo della

Lc 12,32-48


I.

Uno degli uomini più geniali e inquieti del Novecento è stato senz'altro il filosofo Ludwig Wittgenstein, autore del celebre Tractatus Logico-Philosophicus, che contiene la frase diventata proverbiale: «su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Apparteneva a una delle famiglie più ricche d'Europa, ma dopo la Prima guerra mondiale rinunciò all'intera eredità e andò a insegnare come maestro elementare nei villaggi rurali più poveri dell'Austria. Non era un credente nel senso classico del termine, ma fu un uomo alla ricerca di Dio. Scrisse: “Pregare è pensare al senso della vita”. Verso la fine della sua esistenza, come un testamento interiore, annotò: “Il mio corpo è stato l'involucro del mio sforzo”. Non disse “dei miei successi”, né “dei miei titoli” o “delle mie opere”. Ma dello sforzo. Noi siamo lo sforzo che abbiamo fatto. Il nostro valore non sta nei risultati ottenuti, ma nell'impegno quotidiano, nella fedeltà silenziosa, nei piccoli gesti di chi veglia anche quando nessuno lo vede. Come fece lui, tra le montagne dimenticate dell'Austria.


II.

Anche il Vangelo di questa domenica ci parla di servi rimasti vigilanti fino alla fine. Il padrone, tornando in un'ora inaspettata, trovandoli svegli, si cinge i fianchi e si mette lui a servirli. È un capovolgimento commovente: non il servo che serve il Signore, ma il Signore che serve i suoi servi fedeli. E questi servi non sono beati perché hanno fatto cose straordinarie, ma perché sono rimasti svegli. “Beati quei servi che il padrone, al suo ritorno, troverà ancora svegli”. Hanno atteso, creduto, vegliato... anche se il padrone sembrava tardare.

E noi? Anche a noi sarà capitato di “addormentarci” nella nostra vita di fede, di abbassare la guardia, di perdere il fervore. La fede non è uno slancio iniziale, è una fedeltà quotidiana. Come l'amore vero tra due persone: non si misura in giorni, ma in anni. Non si vive per un momento, ma per una vita intera.


III.In conclusione.

La frase di Wittgenstein “Il mio corpo è stato l'involucro del mio sforzo”, è davvero una fotografia della vigilanza evangelica di cui ci parla Gesù. Ma oggi l'idea dello “sforzo” sembra non riscuotere molto successo. Viviamo in una cultura che esalta la comodità, che cerca di facilitare tutto, di raggiungere il massimo con il minimo sforzo. È la logica diffusa anche in una certa “pedagogia della facilità”, che vorrebbe trasformare ogni apprendimento in gioco, in divertimento senza nessuno sforzo o sacrificio. Ma sforzarsi, imparare a sacrificarsi, è ciò che ci fa crescere davvero, che ci rende umani. Anche l'intelligenza artificiale, che è uno strumento formidabile a servizio dell'educazione, non deve rendere l'apprendere più banale, ma più profondo, più serio, più qualificato. E questo, ancora una volta, esige sforzo. Quando il Signore, come promesso, verrà “Nell'ora che non immaginate viene il Figlio dell'uomo”, ci ricompenserà non per i risultati ottenuti, ma per lo sforzo di restare svegli, nonostante gli abbiocchi.

Wittgenstein diceva anche: “L'uomo è l'essere che deve continuamente superare se stesso” e “Il lavoro sulla propria vita spirituale è come quello su un'opera d'arte”. E allora, non dimentichiamolo mai: non siamo ciò che abbiamo ottenuto, ma lo sforzo che abbiamo compiuto per ottenerlo. Non siamo ciò che conquistiamo, ma Chi abbiamo scelto di servire.

E allora, nel silenzio delle nostre giornate ordinarie, tra le fatiche invisibili e le veglie solitarie, possiamo custodire una certezza: ogni sforzo che non ha cercato applausi, ogni fedeltà che ha resistito al sonno del disincanto... tutto questo è visto da Qualcuno. Alla fine, questo Qualcuno che abbiamo servito con fedeltà, ci farà sedere alla sua mensa, e passerà Lui a servirci.



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