TRIDUO PASQUALE 2025
- P. Ezio Lorenzo Bono, CSF
- 17 apr
- Tempo di lettura: 8 min

DIRE "TI AMO" SENZA DIRE "TI AMO"
Commento al Vangelo di
Giovedì Santo (Messa in Cena Domini) (17/04/2025)
Gv 13,1-15
I.
Tra le parole più belle che possiamo dire a una persona c'è sicuramente “Ti amo”; eppure, diciamocelo, è anche una delle parole che ci costa di più pronunciare. A volte per pudore, per vergogna, o per non mettere in imbarazzo l'altra persona. A volte per pressione sociale, o perché abbiamo paura di sembrare deboli, di non essere corrisposti. Eppure, il desiderio di dire “ti amo” - e anche di sentirselo dire - è dentro ciascuno di noi. Se non riusciamo a dirlo con queste due parole, lo possiamo dire in altri modi. Su internet c'è un sito che raccoglie persino novanta modi diversi di dire "ti amo" senza dirlo direttamente. Quando diciamo a qualcuno: “Ti ci devo portare”, gli stiamo dicendo "voglio passare del tempo con te"; oppure “Scrivimi quando arrivi”, significa “sei importante per me”; così pure: “Guida piano”, “Non prendere freddo”, “Ho visto una cosa e ho pensato a te”... cosa sono se non manifestazioni d'amore? Elsa Morante scrisse che la frase d'amore più bella è chiedere: “Hai mangiato?”, che esprime cura, interesse per l'altra persona.
Le parole che diciamo - o che non diciamo - modellano le persone che ci stanno accanto. C'è un esperimento suggestivo, anche se non scientificamente provato, fatto da un certo dottor Masaru Emoto, secondo cui le parole rivolte all'acqua - amore, odio, pace, paura - influenzerebbero la forma dei cristalli dell'acqua una volta congelati. Le parole belle generano cristalli armonici, le parole brutte forme distorte. Non sappiamo se sia vero, ma l'immagine resta potente. Considerando che il nostro corpo è fatto per il 70% di acqua, come reagisce a parole buone o a parole cattive?
Altri esempi, stavolta scientificamente provati, dimostrano la forza delle parole e dei gesti. Negli orfanotrofi americani degli anni '40 si osservò che i neonati accuditi solo con cure materiali ma senza amore, senza contatto umano, senza carezze... si ammalavano di più, crescevano meno. Alcuni morivano. In un ospedale oncologico, si è visto che le parole gentili dette a pazienti terminali riducevano la percezione del dolore e miglioravano il tono dell'umore. Una carezza o una parola buona non cambiano la diagnosi, ma cambiano la persona. E perfino il cervello lo conferma. Secondo il professor Andrew Newberg, le parole positive attivano le aree del cervello legate alla fiducia, all'empatia, alla serenità. Le parole negative, invece, accendono la paura, l'aggressività, l'ansia. Una sola parola può accendere o spegnere la luce dell'anima.
II.
Dio conosce molto bene la forza delle parole e dei gesti. In questa notte dei tradimenti, Gesù dice "ti amo" a ognuno dei suoi apostoli non con le parole, ma con un gesto: lavando i piedi di ciascuno. Manifesta il suo amore proprio nella notte in cui viene tradito. Lava i piedi anche a Giuda, gli offre il pane eucaristico, lo chiama “amico”. Celebra l'Eucaristia non con santi, ma con uomini che poche ore dopo lo tradiranno, si addormenteranno, lo rinnegheranno, scapperanno. Gesù non parla di perdono: lo vive. Non spiega l'amore: lo mette in pratica. Il linguaggio d'amore di Dio è acqua che lava e pane che nutre. Quando l'uomo tocca il punto più basso, Dio tocca il punto più alto.
III.
Per concludere.
Curiosamente, nella lista dei novanta modi di dire a una persona “ti amo” senza dire "ti amo", al numero cinquantaquattro c'è: “Toccare i suoi piedi”. È sorprendente. Cosa c'entra toccare i piedi? Eppure, in fondo, ha senso. Perché toccare i piedi ha un significato simbolico - e non solo simbolico - molto profondo. I piedi sono la parte più bassa, più esposta, più stanca del corpo. Toccarli vuol dire avvicinarsi a chi è nella polvere. Vuol dire chinarsi, abbassarsi, entrare nella zona debole. Toccare i piedi è dire: “Mi prendo cura della tua fatica, della tua fragilità”. È un gesto umile, concreto, che rompe l'orgoglio, sia di chi lo compie sia di chi lo riceve. Per questo Pietro fa resistenza, perché non sopporta di essere raggiunto lì dove si sente sporco, indegno.
Ma finché non facciamo questa esperienza - quella di essere amati senza merito, nel punto più basso - non possiamo davvero capire come amare gli altri. Solo chi è stato perdonato, può perdonare. Solo chi è stato accolto nella sua miseria, può accogliere quella degli altri. Gesù, in questa notte dei tradimenti, non si limita a toccare i piedi. Li lava. Li asciuga con un panno, come fanno le madri con i figli, come fanno gli innamorati con la persona amata. E li lava tutti: anche quelli di Giuda. Anche quelli di Pietro, che lo rinnegherà. Anche i tuoi. E solo quando avrai fatto davvero l'esperienza di lasciarti lavare i piedi, potrai allora lavarli agli altri.
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IL PARADISO NON ESISTE
Commento al Vangelo di
Venerdì Santo (Passione del Signore) (18/04/2025)
Gv 18,1-19,42
Un autore, di cui non ricordo il nome, ha detto che le parole più belle mai pronunciate sulla faccia della terra sono state quelle scambiate da una croce all'altra: “Ricordati di me, Signore, quando entrerai nel tuo Regno”. “Oggi sarai con me, dunque in Paradiso”. Ieri, celebrando il ricordo di quella notte dei tradimenti, abbiamo meditato sui linguaggi dell'amore e su come dire “ti amo” senza dire “ti amo”: Gesù l'ha fatto lavando i piedi agli apostoli. Oggi, invece, meditiamo sulle sette parole - le ultime che ha pronunciato sul legno della croce - e che rimangono come un testamento spirituale per ciascuno di noi.
La prima parola: speranza. “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Non è un grido di disperazione, ma l'inizio del Salmo 21, il salmo del giusto sofferente che, dopo la prova, viene esaudito da Dio. Gesù ci chiede di mantenere sempre la speranza: Dio non abbandona mai i suoi figli, anche quando tutto sembra buio.
La seconda parola: perdono. “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno”. Gesù ci insegna a perdonare sempre, fino a settanta volte sette. Ci chiede di credere nel perdono dei peccati: saper perdonare, ma anche saper chiedere perdono.
La terza parola: risurrezione. “Oggi sarai con me in Paradiso”. Il ladrone crocifisso accanto a Gesù gli dice con fede: “Ricordati di me, Signore, quando sarai nel tuo Regno”. È una testimonianza di fede nella vita dopo la morte. Gesù gli promette: oggi, non domani. Quindi ci invita a credere nella risurrezione e nella vita eterna.
La quarta parola: Chiesa. “Donna, ecco tuo figlio. Figlio, ecco tua madre”. Con queste parole, Gesù affida a Giovanni, il discepolo amato, Maria - e in lei, la sua Chiesa. Ci chiede di amare, custodire e difendere la Chiesa come una madre.
La quinta parola: carità. “Ho sete”. Un grido di soccorso, un appello d'amore rivolto all'umanità. Gesù ha sete d'amore, sete di giustizia, sete della nostra compassione. Ancora oggi, attraverso i poveri e gli oppressi, ci dice: “Ho sete”. Ci invita a mantenere viva la carità.
La sesta parola: fede. “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. Gesù si abbandona totalmente a Dio. È l'atto supremo della fede, della fiducia. Ci chiede di fidarci anche noi, fino all'ultimo respiro.
La settima parola: obbedienza. “Tutto è compiuto”. Gesù ha portato a termine la volontà del Padre. Ha obbedito fino alla fine, nell'amore. Non è un grido di sconfitta, ma un “Sì” pieno, totale, definitivo. "Ho fatto ciò che mi hai chiesto, Padre. Ho amato, ho perdonato, ho donato tutto.” Anche a noi, oggi, è chiesto di vivere un'obbedienza fiduciosa, che dà senso e compimento a tutta la nostra vita.
Ecco, allora, il testamento di Gesù, riassunto in sette parole-chiave: speranza, perdono, risurrezione, Chiesa, carità, fede, obbedienza.
Non sono parole rivolte solo al futuro, ma al nostro presente. Perché il Paradiso comincia qui, ogni volta che scegliamo di stare con Gesù. Essere con Lui, già adesso, è essere in Paradiso. Perché il Paradiso, come luogo, non esiste. Il Paradiso è Gesù.
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LE STORIE D'AMORE NON FINISCONO MAI (Luca Carboni)
Commento al Vangelo della
Veglia Pasquale nella Notte Santa (Anno C) (19/04/2025)
Lc 24,1-12
I.
Una delle canzoni d'amore più belle, secondo me, è quella di Luca Carboni, dal titolo “Le storie d'amore”. È un brano che parla della forza dell'amore che non si spegne, nemmeno quando una storia sembra finita. Il testo è fatto di immagini delicate, ma profonde: ricordi che rimangono impressi, ferite che non si cancellano, emozioni che tornano. Luca Carboni canta: “Non si può cancellare niente / Tutto viene registrato / Dalla mente, dalla mente mia / Dai cuori no, non si va più via...”. E poi, con dolcezza e malinconia ripete più volte: “Ah... ma le storie d'amore / No, non finiscono mai”. È per questo che può dire: “Non smetterò di amarti mai / Di cercarti all'improvviso / Di incontrarti nel mio passato...”. Perché ci sono amori che non escono dalla mente e non si staccano dal cuore. Sono scatole perfette, dice, dove tutto resta.
II.
Se quella di Carboni è una delle canzoni d'amore più belle, la storia d'amore più bella di tutte - lasciatemelo dire - è proprio quella che celebriamo stanotte. Se il Giovedì Santo è stata la notte dei tradimenti, la notte di Pasqua è la notte dell'amore. Nei giorni della Passione abbiamo visto fin dove è arrivato l'amore di Gesù. Tradito, abbandonato, insultato, percosso... eppure non ha mai smesso di amare. Perché anche Lui sa che “le storie d'amore non finiscono mai”. Se una storia finisce... forse non era mai davvero cominciata. L'unico vero ostacolo all'amore era la morte. Se la morte avesse avuto l'ultima parola, allora l'amore sarebbe stato solo un'illusione. Per questo Gesù doveva morire la morte. Perché solo così l'amore potesse non finire mai.
Le donne, innamorate di Gesù, vanno al sepolcro per ungere il corpo dell'Amato, ma nel fondo del cuore sentono che non può essere finita lì, non può terminare tutto in una tomba. Anche loro credono fermamente che “le storie d'amore non finiscono mai”. Infatti, quando viene chiesto loro: “Perché cercate tra i morti Colui che è vivo?”, non si stupiscono troppo. Nel cuore, lo sapevano già.
Pietro e Giovanni, ricevuto l'annuncio, non ridicolizzano le donne, ma si mettono a correre. Perché anche loro, dentro di sé, sentono che non poteva finire così. Dopo aver iniziato la più bella storia d'amore della loro vita, non poteva finire tutto in quel modo. Anche loro sapevano che “le storie d'amore non finiscono mai”.
III.
Per concludere.
In diverse interviste, Luca Carboni ha parlato della sua fede. Ha raccontato di venire da una famiglia religiosa: “Mia mamma mi ha aperto una grande finestra sul divino, che ogni tanto si spalanca da sola”. Una finestra sul divino che lo ha accompagnato anche nei momenti duri della vita, come la malattia. La sua fede si riflette anche nella sua musica: nella canzone “Provincia d'Italia” ha inserito il Padre Nostro, unendo il pane quotidiano materiale... a quello spirituale. La sua canzone “Pregare per il mondo” è una specie di salmo urbano, una riflessione poetica e spirituale, un invito a pregare per le ingiustizie, le ferite del mondo e le fragilità umane. Anche la pittura è diventata per lui una forma di fede. Ha detto: “La pittura testimonia il mio rapporto stretto con la fede: la vivo, la ricerco, la racconto”. E forse solo chi ha cercato la luce anche nei giorni bui, e crede che la vita continua dopo la morte, poteva arrivare a questa intuizione profonda.
Celebrare la Pasqua, in fondo, è credere come Gesù, come le donne al sepolcro, come Pietro e Giovanni e si, come Luca Carboni, che davvero “le storie d'amore non finiscono mai”.
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